Un settore sempre nell’occhio del ciclone
La fotografia del mercato degli affitti brevi racconta un’Italia sospesa tra grandi opportunità economiche e tensioni crescenti. Da una parte c’è uno stock impressionante di abitazioni non utilizzate: milioni di case vuote, seconde case in montagna o al mare, immobili ereditati che restano chiusi per anni. Dall’altra un comparto, quello delle locazioni brevi ed extra-alberghiere, che negli ultimi anni ha registrato una crescita costante, con valori stimati in decine di miliardi di euro e flussi turistici sempre più orientati verso appartamenti e case vacanza.
In mezzo ci sono i proprietari. Non grandi fondi immobiliari, non colossi della finanza, ma centinaia di migliaia di famiglie che hanno deciso di mettere a reddito una seconda casa o un appartamento di famiglia, alla ricerca di una integrazione di reddito in un contesto di salari stagnanti, carovita e inflazione dei servizi.
È questo il quadro che emerge dalla lunga intervista andata in onda su Casa Radio, nel programma “Bricks and Music”, con protagonista Marco Celani, amministratore delegato di Italianway e presidente di AIGAB l’associazione che riunisce i gestori degli affitti brevi. Italianway, nata come realtà innovativa nel campo proptech, oggi gestisce centinaia di appartamenti nei grandi centri e migliaia di case in numerose destinazioni italiane, con una struttura organizzata che presidia l’intera filiera dell’ospitalità in appartamento: affitti brevi, affitti transitori e locazioni tradizionali.
Il confronto con i conduttori parte da una domanda tanto semplice quanto divisiva: gli affitti brevi sono davvero il “nemico pubblico” delle città italiane e il principale responsabile del caro-affitti?
«Non capitalisti cattivi, ma classe media in affanno»
Su questo punto Celani è netto e ribalta uno dei luoghi comuni più ricorrenti nel dibattito pubblico: «Dietro la maggioranza degli annunci degli affitti brevi non ci sono grandi proprietari, ma famiglie normali. Persone che hanno ereditato una casa, che si sono trasferite per lavoro e hanno lasciato un immobile nel paese d’origine, oppure che hanno investito in una seconda casa come forma di integrazione della pensione o paracadute in caso di difficoltà economiche».
L’Italia è un Paese in cui la casa continua a rappresentare la forma principale di risparmio. A fronte di decine di milioni di abitazioni e di un numero di famiglie inferiore, una quota significativa del patrimonio immobiliare non è occupata stabilmente: appartamenti vuoti, seconde case utilizzate solo pochi giorni l’anno, alloggi ereditati che spesso rimangono chiusi per mancanza di risorse per ristrutturarli o metterli a reddito. Dentro questo quadro, gli immobili destinati alla locazione turistica rappresentano una frazione minoritaria. E, secondo i dati illustrati da Celani, quattro su cinque sono riconducibili a proprietari che gestiscono una sola casa. Il cuore del fenomeno, dunque, non starebbe nei portafogli delle grandi società, ma nelle scelte di migliaia di nuclei familiari.
«Colpire in modo indiscriminato gli affitti brevi, è il ragionamento, significa colpire il ceto medio, non i grandi gruppi. Significa colpire chi usa la seconda casa come ammortizzatore sociale, non chi vive di rendita speculativa».
Cedolare secca al 26%: una patrimoniale mascherata?
Su questa realtà sociale si innesta la novità fiscale: l’aumento dell’aliquota della cedolare secca sugli affitti brevi dal 21% al 26%, con l’estensione effettiva del prelievo più severo a tutti quegli host che si appoggiano a intermediari digitali o a gestori professionali. In pratica, la quasi totalità del mercato.
Il provvedimento, discusso come tassello delle prossime manovre di bilancio, viene letto da molte associazioni come una vera e propria patrimoniale sulla classe media. L’obiezione è duplice: da un lato si irrigidisce il prelievo proprio nel momento in cui l’inflazione ha già mangiato una parte significativa dei margini; dall’altro si introduce un’asimmetria rispetto agli affitti tradizionali, con trattamenti fiscali differenziati che rischiano di generare ulteriore contenzioso. In trasmissione Celani sottolinea un passaggio culturale: «Si è diffusa una narrazione per cui chi ha due case è automaticamente un privilegiato da colpire. Nella realtà, questi proprietari pagano bollette, spese condominiali, IMU, manutenzioni ordinarie e straordinarie. Hanno visto salire i costi energetici e dei servizi, mentre la tassazione tende a crescere senza offrire in cambio stabilità normativa».
Le simulazioni fatte dagli operatori indicano che il passaggio dal 21% al 26%, sommato alle altre voci di costo, può erodere anche diverse centinaia di euro all’anno su un singolo appartamento medio, spingendo molti proprietari a riconsiderare la convenienza dell’affitto breve. Il rischio è duplice: alcune case tornano a restare chiuse, in particolare nei centri minori, e per coprire il maggior peso fiscale una parte dei proprietari alza i prezzi, scaricando sull’ospite il costo della nuova imposta.
In un contesto turistico fortemente competitivo, con destinazioni del Mediterraneo che già propongono prezzi più bassi, questa dinamica può ridurre l’attrattività complessiva dell’offerta italiana.
Dal codice identificativo alla sicurezza: la giungla degli adempimenti
Il tema fiscale non è l’unico a preoccupare gli operatori. Negli ultimi anni, e in modo ancora più marcato nelle norme di nuova introduzione, si è consolidato un impianto regolatorio che, almeno nelle intenzioni, punta a fare ordine nel settore, contrastare l’abusivismo, garantire standard di sicurezza e di qualità dell’offerta.
Il simbolo di questa stretta è il Codice identificativo nazionale, il cosiddetto CIN: una sigla unica, rilasciata a livello centrale, che ogni struttura ricettiva e ogni immobile destinato alla locazione breve deve richiedere, esporre all’esterno e indicare in ogni annuncio online. A questo si aggiungono la registrazione in banche dati nazionali, l’obbligo di comunicare gli ospiti alle autorità di pubblica sicurezza, e una serie di prescrizioni relative agli impianti, alle dotazioni antincendio, alle vie di fuga. Per le realtà strutturate, abituate a gestire flussi elevati e ad investire in conformità, questi adempimenti rappresentano un costo rilevante ma gestibile. Per il proprietario che affitta la casa di famiglia per pochi mesi all’anno, al contrario, possono trasformarsi in un labirinto burocratico disincentivante.
Uno dei punti più sensibili riguarda la modalità di check-in e di identificazione degli ospiti. Proposte di obbligo di presenza fisica e vincoli molto rigidi sugli accessi rischiano di ignorare il fatto che il settore, soprattutto nella fascia più evoluta, ha già introdotto soluzioni tecnologiche avanzate: sistemi di riconoscimento documentale da remoto, autenticazioni a più fattori, serrature intelligenti con codici monouso, tracciamenti digitali delle presenze.
«Non chiediamo di ridurre la sicurezza – osserva Celani – ma di adattare le regole al mondo che esiste. Il controllo può essere più efficace con strumenti digitali che permettono di sapere chi entra e chi esce, in quali orari e con quali documenti, piuttosto che con procedure obsolete che finiscono per penalizzare soltanto il turista e chi lavora in modo trasparente». Una regolazione intelligente dovrebbe distinguere tra chi sporadicamente affitta una stanza e chi opera su scala industriale, calibrando obblighi e responsabilità, invece di riversare sul settore un impianto indistinto che rischia di far passare la voglia di affittare proprio a chi potrebbe contribuire alla valorizzazione del patrimonio diffuso.
Borghi, mare e montagna: quando il lungo termine non c’è
Se nelle grandi città il conflitto tra affitti brevi e residenzialità è il tema più dibattuto, in altri territori il quadro è molto diverso. Nei borghi dell’entroterra, nei paesi di montagna, in molte località costiere che vivono per pochi mesi all’anno di turismo, spesso non esiste un vero mercato della locazione a lungo termine. Mancano famiglie disposte a trasferirsi stabilmente, mancano studenti, spesso mancano anche i servizi di base. In questi contesti, l’alternativa reale non è tra affitto residenziale e affitto turistico, ma tra casa vuota e casa affittata per brevi periodi. Vengono citati esempi di borghi in cui alcune seconde case, lasciate per anni in stato di semi-abbandono, sono state ristrutturate per diventare alloggi turistici: l’arrivo, seppure stagionale, di visitatori ha portato linfa a bar, ristoranti, piccole botteghe artigiane. In alcuni casi sono tornati a riaprire esercizi commerciali, in altri si sono creati posti di lavoro legati all’ospitalità, alla manutenzione, ai servizi di accompagnamento.
«Senza gli affitti brevi – è la tesi di Celani – molte di queste case resterebbero chiuse, e con loro continuerebbero a spegnersi interi paesi. Invece, se l’ospitalità diffusa viene governata e accompagnata, può diventare un pezzo di una politica di coesione territoriale, una risposta concreta allo spopolamento». L’impatto non riguarda solo l’economia, ma anche l’identità dei luoghi: la casa ristrutturata, il vicolo sistemato, il bar che rimane aperto tutto l’anno, diventano tasselli di una narrazione positiva che può attrarre nuovi residenti, nomadi digitali, piccoli imprenditori.
Il proprietario con una sola casa: tra app, adempimenti e realtà
L’intervista entra anche nel dettaglio del profilo del proprietario medio: chi ha una sola casa da affittare e si confronta per la prima volta con il mondo degli affitti brevi. Per questa platea, alcuni operatori hanno sviluppato strumenti specifici: piattaforme e applicazioni che permettono di caricare un annuncio una sola volta e pubblicarlo automaticamente su più portali, sincronizzando calendario, tariffe e disponibilità; sistemi che gestiscono incassi, pulizie, comunicazioni con gli ospiti, invio delle schedine alloggiati, predisposizione di documenti fiscali.
L’obiettivo dichiarato è ridurre la complessità, consentendo al proprietario di occuparsi soprattutto della qualità dell’immobile e dell’accoglienza, mentre la parte operativa viene automatizzata o affidata a gestori professionali.
Ma Celani mette in guardia da una narrativa troppo facile: «Non è una rendita magica. Chi pensa di appendere un annuncio e incassare senza fatica sbaglia approccio. Servono serietà, costanza, disponibilità a rispondere agli ospiti, capacità di mantenere uno standard elevato di pulizia e manutenzione. Chi non ha tempo o competenze dovrebbe valutare il supporto di un professionista».
In altri termini, la figura dell’“host” non è quella di un rentier passivo, ma sempre più quella di un micro-imprenditore dell’ospitalità, anche quando gestisce un solo immobile.
Case vuote, caro-affitti e politiche abitative: la vera domanda
L’ultima parte dell’intervista su Casa Radio allarga lo sguardo oltre il perimetro degli affitti brevi: è corretto chiedere a questo segmento di mercato di risolvere la crisi abitativa italiana? Con milioni di abitazioni vuote da un lato e una cronica carenza di alloggi a canone sostenibile nelle grandi città dall’altro, la risposta non può essere ridotta a uno slogan. Il legame tra affitti brevi e aumento dei canoni residenziali esiste in alcuni contesti iper-turistici, ma non spiega l’intero fenomeno.
Per Celani, la vera risposta passa da politiche pubbliche di lungo periodo: rilancio dell’edilizia residenziale sociale, incentivi mirati alla rigenerazione del patrimonio pubblico e privato oggi inutilizzato, strumenti che rendano conveniente immettere sul mercato a canone moderato immobili oggi congelati. Gli affitti brevi, in questa prospettiva, sono uno strumento specifico per una domanda specifica: turismo, trasferte di lavoro, soggiorni temporanei di professionisti e studenti in mobilità.
Demonizzarli può diventare, paradossalmente, un alibi per eludere interrogativi ben più scomodi: perché per anni si è investito poco in housing sociale? Perché molti interventi di rigenerazione urbana hanno guardato più al marketing che alle esigenze abitative? Perché il patrimonio immobiliare degli enti pubblici fatica a essere messo a reddito in modo efficiente?









