La società della performance

Da società dello spettacolo a società della performance

Durante il salotto del coach del 24 Dicembre con Laura Innocenti e Angelo Storari abbiamo affrontato un tema sociologico, la nostra della performance, partendo da Guy De Board e dal suo libro che rappresentava 50 anni fa il cambiamento da individuo a consumatore delle persone fino ai giorni nostri.

La società contemporanea è caratterizzata da dinamiche che sembrano ridurre l’essenza dell’essere umano a una funzione performativa. Questo tema, analizzato approfonditamente da Byung-Chul Han nel suo libro “La società della stanchezza”, può essere tracciato fino alle riflessioni di Guy Debord sulla società dello spettacolo. Il lavoro di Debord rappresenta una pietra miliare per comprendere come la spettacolarizzazione della vita abbia aperto la strada a una società che misura il valore umano in termini di produttività e rendimento.

Nel 1967, Guy Debord pubblica “La società dello spettacolo”, un’opera  in cui denuncia il predominio delle immagini e delle rappresentazioni sulla realtà. Secondo Debord, la vita sociale è diventata un accumulo di spettacoli in cui l’autenticità è soppiantata dalla rappresentazione. Gli individui non vivono più in relazione diretta con il mondo, ma attraverso una mediazione spettacolare che deforma e ricostruisce la realtà. Questa spettacolarizzazione è strettamente legata al consumismo: i bisogni autentici vengono sostituiti da desideri indotti, mentre le persone si identificano con le immagini e le narrazioni offerte dai media.

Debord descrive una società in cui il capitale si esprime non più attraverso la produzione di beni materiali, ma attraverso la produzione di immagini e significati. La spettacolarità diventa il mezzo attraverso cui il potere economico e sociale si manifesta e si consolida. Questa alienazione spettacolare è alla base di una trasformazione epocale che pone le radici di ciò che Byung-Chul Han definirà la società della performance.

Byung-Chul Han: dalla società dello spettacolo alla società della performance

Byung-Chul Han sviluppa il concetto di società della performance come una naturale evoluzione della società dello spettacolo descritta da Debord. Se Debord analizzava l’alienazione attraverso la mediazione delle immagini, Han si concentra sull’autodisciplina e sull’auto-sfruttamento come tratti distintivi della contemporaneità.

Nella società della performance, gli individui non sono più soggetti a un controllo esterno, ma diventano imprenditori di se stessi, costantemente impegnati a migliorare, produrre e performare. Questa trasformazione, secondo Han, è il risultato di un passaggio dalla società disciplinare, descritta da Michel Foucault, a una società della prestazione. La disciplina era imposta da istituzioni esterne come scuole, fabbriche e carceri; nella società della performance, invece, il controllo si interiorizza. Gli individui diventano carnefici e vittime di se stessi, costantemente sotto pressione per raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi.

L’auto-sfruttamento porta a una forma di esaurimento fisico e mentale che Han definisce “stanchezza cronica”. Questo stato è il prodotto di una società che misura il valore umano esclusivamente in base alla produttività. La libertà apparente degli individui – la possibilità di scegliere, di innovare, di crescere – si trasforma in una nuova forma di schiavitù, più subdola e insidiosa, perché autoimposta.

Essere presenti sui social media oppure non esistere!

Un elemento centrale nella transizione dalla società dello spettacolo a quella della performance è rappresentato dai social media e dalle tecnologie digitali. I social media amplificano la logica della visibilità e della performatività: ogni individuo diventa un “brand”, impegnato a curare la propria immagine pubblica attraverso post, like e follower. Questo processo non solo consolida l’alienazione descritta da Debord, ma la radicalizza, trasformando la vita privata in uno spettacolo permanente.

Allo stesso tempo, le tecnologie digitali creano un’illusione di efficienza e produttività, alimentando l’idea che il tempo possa essere ottimizzato all’infinito. Le app di monitoraggio del sonno, della produttività e del fitness rappresentano esempi concreti di come la tecnologia incentivi l’auto-sfruttamento, trasformando ogni aspetto della vita in un progetto da gestire.

La società della performance, così come descritta da Han, ha conseguenze profonde sul benessere psicologico e sociale. L’ansia, la depressione e il burnout sono fenomeni sempre più diffusi, sintomi di un sistema che spinge gli individui oltre i propri limiti. Questa dinamica non solo mina la salute mentale, ma erode anche i legami sociali, favorendo l’isolamento e la competizione a scapito della cooperazione e della solidarietà.

Esiste una via d’uscita?

Una possibile via d’uscita risiede nella riscoperta di forme di vita meno performative e più autentiche. Han invita a riflettere sull’importanza della contemplazione, del riposo e del dialogo come antidoti alla logica della prestazione. Tornare a vivere il tempo in modo non strumentale – come spazio per l’incontro, la riflessione e la creatività – potrebbe rappresentare una risposta efficace alle derive della società contemporanea.

Partendo dalle analisi di Guy Debord sulla società dello spettacolo, Byung-Chul Han traccia un quadro inquietante ma illuminante della società della performance. Entrambi gli autori evidenziano come il capitalismo abbia trasformato non solo le strutture economiche, ma anche le modalità di esistenza degli individui, colonizzando il tempo, lo spazio e le relazioni umane. Comprendere queste dinamiche è un passo fondamentale per immaginare alternative sostenibili e umane a un sistema che, nella sua ricerca incessante di produttività, rischia di consumare le sue stesse fondamenta.

Un mio consiglio

Da coach e appasionato sociologo osservatore dei fenomeni dei nostri tempi voglio dare una mia soluzione piccola a questo tipo di dipendenza:

 “darsi del tempo offline”

sottrarsi al wifi, piuttosto che spegnere tutto e rimanere solo con i propri pensieri per un’ ora al giorno, tutti i giorni. Puo’ essere una buona partenza, coì come limitarsi nel postare qualsiasi cosa ci viene in mente piuttosto che rilanciare post più o meno simpatici di chiunque. Con queste 2 piccole azioni ripetute quotidianamente proveremo la nostra “dipendenza da social media”, nel momento in cui cerchiamo disperatamente con la mano il nostro “miglior amico cellulare” ogni 30 secondi ………. vorrà dire che abbiamo una dipendenza.

Ascolta ora il Podcast:

IL SALOTTO DEL COACH
Puntata del 24/12/24
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