La scorsa settimana ho avuto l’opportunità di partecipare a una visita guidata alle Torri di via Russoli, nell’ambito del progetto internazionale Timber Forward Italia, coordinato dall’Arch. Silvia Giordano per GBC Italia – capofila del progetto -, e finanziato da Built by Nature. Un’esperienza così sorprendente da sembrare quasi collocarsi in uno scenario spazio temporale “altro” rispetto alla cronaca dei fatti giudiziari e non che stanno coinvolgendo la metropoli milanese negli ultimi mesi e che hanno generato alcune riflessioni.
Non si è trattato di una semplice ricognizione tecnica: a fare da ciceroni, oltre ai progettisti, c’erano le Sciure Tina e Lucia, rappresentanti del Comitato di Autogestione degli Inquilini delle Torri RISOrsa. Due voci autentiche che, passo dopo passo, hanno raccontato l’esperienza di chi quelle torri le abita e ha contribuito in prima persona a un progetto di trasformazione che ha il sapore della sostenibilità vera.
Perché qui la sostenibilità non è uno slogan da brochure, né un capitolo da inserire in un bilancio patinato. È un percorso concreto che ha rigenerato quattro edifici di edilizia pubblica non solo dal punto di vista architettonico ed energetico, ma anche sul piano sociale. Le facciate sono state riqualificate con materiali naturali derivati dagli scarti del riso, gli impianti resi più efficienti, i consumi ridotti drasticamente. Ma soprattutto, i tetti si sono trasformati in giardini pensili e orti comuni, spazi condivisi che hanno generato relazioni, socialità e un senso di appartenenza nuovo.
La riqualificazione energetica con SuperBonus 110%
Un altro elemento che rende questo progetto esemplare è il fatto che sia stato realizzato grazie al Superbonus 110%. Uno strumento spesso al centro di polemiche, accusato di aver favorito soprattutto i ceti più abbienti, qui ha mostrato il suo volto migliore: quello di una politica pubblica capace di restituire dignità a un quartiere popolare, di ridurre le disuguaglianze, di creare valore non solo ambientale ma anche sociale. Un esempio di come la leva fiscale, se ben utilizzata, possa innescare processi virtuosi di rigenerazione urbana.
Dal punto di vista tecnico e ambientale, i risultati sono evidenti. L’intervento di efficientamento energetico ha portato a grandi risparmi nei consumi, riducendo drasticamente le dispersioni e garantendo un comfort abitativo superiore: gli appartamenti oggi sono più freschi d’estate e più caldi d’inverno, con bollette notevolmente più leggere. La presenza dei tetti giardino ha aggiunto un ulteriore valore: non solo bellezza e biodiversità, ma anche isolamento e una funzione fondamentale per la città. Questi spazi verdi, infatti, hanno dimostrato di contribuire all’invarianza idraulica, funzionando come spugne naturali in caso di eventi meteorici intensi. L’acqua piovana non viene scaricata rapidamente nel sistema fognario urbano, ma trattenuta e rilasciata gradualmente, evitando di sovraccaricare le reti di deflusso.
Dal punto di vista edilizio, il progetto è particolarmente interessante per l’impiego di sistemi prefabbricati che hanno reso i lavori rapidi e a basso impatto. Non è stato necessario montare ponteggi, se non per alcune porzioni limitate degli edifici: i nuovi rivestimenti sono stati realizzati con moduli prefabbricati con telaio in legno e isolamento in lolla di riso, materiale ottenuto dagli scarti della filiera industriale del riso. I pannelli, prodotti in fabbrica, sono stati trasportati in cantiere, sollevati con gru mobili e fissati direttamente alle solette in cemento armato tramite staffe a secco, senza uso di collanti o sistemi invasivi. Una soluzione innovativa e replicabile, che unisce velocità di esecuzione, riduzione dei disagi per gli abitanti e massima sostenibilità dei materiali impiegati.
Il progetto è stato curato dall’Architetto Tiziana Monterisi, co-fondatrice e anima di Rice House, azienda innovativa che ha fatto della valorizzazione degli scarti della risicoltura una missione industriale e culturale.
Un progetto scomodo di cui non parlare
Eppure, questo modello virtuoso non viene raccontato abbastanza. Non dalla pubblica amministrazione, non dalla stessa ALER, che pure ne è stata proprietaria e committente. Forse perché non porta ritorni immediati di immagine, o perché non rientra nel grande racconto delle “grandi opere” su cui Milano costruisce la sua narrazione.
Ed è proprio qui che si apre il contrasto. In città la parola “sostenibilità” viene spesso usata per rivestire di verde operazioni immobiliari che puntano a ridefinire interi quartieri con grattacieli scintillanti e masterplan avveniristici. Una sostenibilità di facciata, teorica e retorica, che non dialoga con il tessuto sociale né con la città reale, e che anzi attiva processi di gentrificazione e cambiamenti forzati di identità urbana. Con la benedizione delle amministrazioni locali, più interessate ad attrarre capitali e popolazione elitaria che a rafforzare il diritto all’abitare e la coesione sociale.
Alle Torri RISOrsa, invece, la sostenibilità si misura nelle bollette più leggere per inquilini spesso in condizioni economiche difficili, nel benessere abitativo, nel verde sui tetti che distribuiscono i prodotti dell’orto a tutti i condomini, che ricreano biodiversità e resilienza idraulica in un quartiere spesso dimenticato. Si misura nella capacità tecnica di innovare i processi edilizi con soluzioni prefabbricate e sostenibili, e nel protagonismo e nell’auto-organizzazione degli abitanti, che non sono stati meri spettatori, ma parte attiva di un processo partecipato che ha ridato dignità a un pezzo di città.
Se davvero vogliamo dare un senso etico al termine sostenibilità, allora il riferimento dovrebbero essere anche esperienze meno patinate e più sostanziali come quella delle Torri RISOrsa. Dove l’innovazione si intreccia con la giustizia sociale, dove la comunità è al centro, e dove il futuro sostenibile non è proclamato: si vive, giorno per giorno, sul tetto di casa.









