C’è una frase che, nel mondo immobiliare, ricorre come una giustificazione e insieme come una medaglia: “Non ho un minuto, sono sempre di corsa”. In molte agenzie quel ritmo è diventato la norma, quasi una prova implicita di efficienza. Ma nella conversazione con Casa Radio, Mattia Schirru, CEO di onOffice Italia, ribalta la prospettiva: essere occupati non significa necessariamente essere produttivi. Anzi, spesso è l’esatto contrario. Il troppo lavoro non organizzato diventa un freno, non un acceleratore.
L’intervista, parte da una domanda semplice e incisiva: quando un professionista “è sempre impegnato”, sta davvero costruendo risultati? Schirru invita a separare l’impressione dalla sostanza. “Ci sono giornate in cui finisco dopo dieci ore e mi rendo conto di aver vissuto la giornata in trincea”, osserva, descrivendo quel lavoro fatto di telefonate, urgenze, richieste che arrivano da ogni canale e passaggi che si incastrano all’ultimo. È una corsa continua che dà l’illusione del controllo, ma che spesso produce un esito paradossale: tanto movimento, poca direzione.
Quando la trincea diventa abitudine
Nel real estate gli imprevisti sono fisiologici. La trattativa cambia, il cliente si ripensa, un documento manca, un fornitore ritarda. Ma Schirru distingue tra l’imprevisto e il caos: l’imprevisto è inevitabile, il caos è una scelta organizzativa. Se l’agenzia vive stabilmente in emergenza, non è solo perché il mercato è complesso: è perché mancano percorsi chiari e regole condivise. La produttività, nel suo ragionamento, non coincide con la somma delle attività. Coincide con la capacità di trasformare il tempo in risultati misurabili e ripetibili. È una definizione che sposta il baricentro dal “quanto” al “come”: non quante cose facciamo, ma quali, in che sequenza, con quale standard, con quale esito atteso.
Il salto di scala e il punto di rottura
L’intervista entra poi nel nodo più delicato: perché alcune agenzie crescono e altre, pur lavorando tantissimo, restano ferme? Secondo Schirru la causa più comune non è la mancanza di impegno, ma l’assenza di struttura. Finché i volumi sono contenuti, si può gestire tutto con la memoria e con un approccio “artigianale”. Ma quando aumentano contatti, immobili, appuntamenti, richieste digitali e attività amministrative, quel modello si incrina. È in quel punto che emergono le fragilità: informazioni disperse, procedure diverse da persona a persona, follow-up irregolari, qualità del servizio non costante. E qui il problema smette di essere interno: diventa un rischio reputazionale. Il cliente non valuta lo sforzo, valuta l’esperienza. Se l’esperienza cambia a seconda dell’agente con cui parla, l’agenzia perde identità e riconoscibilità.
Schirru insiste su un concetto che, nel settore, spesso viene evocato ma raramente affrontato in modo operativo: la qualità deve essere replicabile. Se dipende solo dai singoli, non è un sistema: è una sommatoria di talenti. E quando un talento è assente o sovraccarico, il sistema crolla.
Standardizzare non è irrigidire: è liberare spazio
A questo punto arriva la parola che, in molti contesti, suscita resistenze: standardizzazione. Schirru la propone come leva di crescita e, insieme, come antidoto allo stress cronico da emergenza. Standardizzare significa definire i passaggi ripetibili: cosa succede quando entra una richiesta, come viene gestita una lead, quali informazioni vanno raccolte, cosa si fa dopo una visita, quali tempi di ricontatto sono accettabili, dove vengono archiviati i documenti.
Il punto, però, è chiarire cosa la standardizzazione non è. Non è uniformare le persone. Non è imporre un copione. Non è trasformare una relazione in una sequenza di automatismi impersonali. È, al contrario, togliere incertezza e sprechi da ciò che non aggiunge valore umano, così da proteggere il tempo che serve per ciò che umano lo è davvero: ascolto, consulenza, negoziazione, gestione delle emozioni, costruzione della fiducia.
In altri termini: se un agente arriva al cliente stanco perché ha passato ore a inseguire informazioni, la relazione peggiora. Se arriva “leggero” perché il sistema lo supporta, la relazione migliora. La tecnologia e i processi non sostituiscono l’empatia: la rendono possibile in modo sostenibile.
Il metodo pratico: partire da ciò che si ripete
Nel passaggio più concreto dell’intervista, Schirru suggerisce un approccio semplice, quasi domestico, per iniziare a cambiare. Il primo passo è fermarsi e osservare. È controintuitivo: quando si è sommersi, l’istinto è accelerare. Ma accelerare nel caos moltiplica gli errori. Il suo consiglio è dedicare un periodo breve – una o due settimane – a mappare tutte le attività ripetitive e a basso valore aggiunto che riempiono la giornata: le informazioni cercate più volte, le risposte sempre uguali, i passaggi amministrativi ridondanti, le richieste gestite “a sentimento”, i promemoria tenuti a mente. Metterle in lista è già un modo per renderle visibili. Il secondo passo è dare ordine: definire regole minime e condivise, partendo da un ambito alla volta, senza tentare di rivoluzionare tutto insieme.
È un approccio incrementale: piccoli standard, progressivamente migliorati. L’idea non è costruire un “manuale perfetto” in un giorno, ma avviare una trasformazione che, nel tempo, diventa cultura organizzativa.
Automazione e AI: il confine tra supporto e delega
La discussione si sposta poi sulla tecnologia, terreno inevitabile per chi parla di processi e di efficienza. Nel ragionamento di Schirru, l’automazione può essere una risorsa decisiva, ma solo se inserita in un disegno. Automatizzare senza standardizzare significa automatizzare il caos. E, soprattutto, significa rischiare un effetto collaterale evidente: la perdita di autenticità percepita dal cliente. Il settore immobiliare vive di persone e di fiducia. Se l’automazione produce comunicazioni generiche, incoerenti o eccessivamente “da piattaforma”, il cliente lo avverte. L’efficienza, in quel caso, si paga con la freddezza. L’equilibrio sta nel definire cosa può essere delegato ai sistemi e cosa deve restare nella responsabilità umana: la parte ripetitiva sì, la parte relazionale no.
Ed è qui che Schirru introduce una metafora particolarmente efficace, riprendendo l’esperimento mentale della “stanza cinese” di John Searle. L’immagine è nota nella filosofia della mente: qualcuno che non conosce una lingua può produrre risposte corrette seguendo istruzioni, dando a chi osserva l’impressione di “capire”. Ma l’impressione non coincide con la comprensione. Il richiamo serve a evitare un errore molto attuale: confondere la qualità dell’output con l’intelligenza nel senso pieno del termine. Nel lavoro, questo significa usare l’AI come assistente, non come sostituto del giudizio.
Una consiglio per l’anno che viene
Crescere non significa correre di più, significa correre meglio. Ridurre la gestione in emergenza, aumentare la ripetibilità, rendere misurabili i passaggi, costruire coerenza. Non è un tema “tecnico”, è un tema competitivo. In un mercato dove la velocità di risposta e la qualità del servizio diventano fattori decisivi, l’organizzazione interna smette di essere un dettaglio e diventa una parte della proposta di valore.









