La scorsa settimana ho percorso il Cammino Inglese verso Santiago de Compostela. È il più breve dei cammini iacobei — quello che attraversa la Galizia partendo dalla città portuale di Ferrol per poco più di cento chilometri in cinque giorni — eppure racchiude già una forza trasformativa che va ben oltre la distanza. È un viaggio interiore che parla di sostenibilità, di equilibrio e di responsabilità: verso sé stessi, verso gli altri e verso il mondo.
Si dice che i cammini sulle lunghe distanze ci riconnettano con noi stessi, e poi con la terra che attraversiamo. In effetti, camminare è un gesto semplice ma radicale, un atto di riconciliazione con il tempo e con lo spazio. Non è necessario che sia un’esperienza religiosa: è, prima di tutto, un’esperienza di presenza. Serge Latouche, critico del “muovismo” che domina la modernità — quel correre continuo, privo di direzione, che confonde il movimento con il senso — ci invita a riscoprire la “volontaria sobrietà”. Sul Cammino, questa sobrietà prende forma concreta: uno zaino leggero — anche se è comunque sempre troppo pesante — , pochi oggetti essenziali, la consapevolezza che ogni cosa portata sulle spalle ha un peso fisico e simbolico.
Il Cammino diventa così una scuola di sostenibilità personale. Si sperimenta che la vera efficienza è la semplicità, che l’autosufficienza nasce dal limitare i bisogni, non dal moltiplicarli. All’inizio conti i chilometri: 20, 24, 28 al giorno. Poi i numeri perdono significato, e ciò che conta diventa il “come” cammini. Stare — più che andare. Stare nella fatica, nel caldo, nel freddo, nei dolori, nei pensieri, nella gioia, nei momenti di illuminazione. Stare nelle circostanze senza fuggire, come nella vita. È qui che il Cammino si fa metafora del vivere sostenibile: accettare i limiti, adattarsi, rallentare, aiutare altri pellegrini, trovare equilibrio tra ciò che si prende e ciò che si restituisce.
Ogni pellegrino torna con un bagaglio nuovo, invisibile ma reale: immagini, incontri, riflessioni, silenzi e forse un’idea diversa di sostenibilità. Perché non basta innovare o compensare, bisogna trasformare il proprio modo di stare al mondo. La vera transizione ecologica — quella che non lascia indietro nessuno — comincia da un passo consapevole, da una scelta di sobrietà, dal togliere invece che dall’aggiungere.
Sul Cammino si scopre che il mondo diventa più leggero quando lo siamo noi. Che la felicità e la pienezza del vivere sono nella misura, e che “vivere sostenibile” significa, in fondo, lasciare un’impronta lieve: sugli altri, sui luoghi, sul pianeta.
E allora buon cammino a chi parte, ma anche a chi resta: perché la sostenibilità, come ogni pellegrinaggio, comincia sempre da dentro.









