Capaci, Trentatre anni dopo , il ricordo del Giudice Giuseppe Ayala , stretto collaboratore e amico di Giovanni Falcone.
23 maggio 1992. Alle ore 17:58, una violenta esplosione squarciò l’autostrada A29 all’altezza dello svincolo di Capaci, in provincia di Palermo. Cinquecento chili di tritolo, piazzati in un cunicolo sotto la carreggiata e azionati a distanza, uccisero il giudice Giovanni Falcone, la moglie e magistrato Francesca Morvillo, e i tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Fu l’inizio di un biennio di sangue che avrebbe sconvolto l’Italia intera.
Per ricordare quel giorno e le figure di Falcone e Borsellino, il programma Buongiorno Italia di Casa Radio, condotto da Giovanni Lacagnina, ha ospitato il giudice Giuseppe Ayala, magistrato, parlamentare, scrittore e amico personale dei due eroi della lotta alla mafia.
“Una giornata che pesa sul cuore”
«Ogni 23 maggio non è mai un giorno come gli altri», esordisce con voce commossa Ayala.
«Il dolore si rinnova. Non che negli altri giorni dell’anno Giovanni non sia nei miei pensieri – perché c’è, eccome se c’è – ma oggi tutto è più forte, più vivo. È come se il tempo si fermasse esattamente a quell’ora, alle 17:58. Quel boato non è mai cessato nella mia mente.»
«Sul piano personale, è una ferita che non si rimargina. Giovanni non era solo un collega, era un fratello, un complice nella vita e nel lavoro. Un uomo che mi ha cambiato l’esistenza due volte: quando c’era, e quando se n’è andato.»
Falcone, il giudice scomodo anche per lo Stato
Ayala ricorda bene le difficoltà che Falcone dovette affrontare non solo nella lotta contro Cosa Nostra, ma anche all’interno dello stesso sistema giudiziario.
«Dopo il pensionamento del giudice Caponnetto, alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo, tutti ci aspettavamo che sarebbe stato Giovanni a prendere il suo posto. Ma gli fu preferito un collega più anziano. Fu una decisione profondamente ingiusta, che lo fece sentire isolato, umiliato. Non era un uomo che si lamentava, ma in quei giorni era evidente quanto fosse amareggiato. Era un magistrato straordinario, ma soprattutto un servitore dello Stato. Eppure lo Stato, spesso, non fu con lui.»
Fu solo con la chiamata al Ministero della Giustizia, dove fu nominato Direttore Generale degli Affari Penali, che Falcone poté riprendere fiato e dare un contributo determinante.
«Al Ministero portò avanti la riforma del 41-bis, il carcere duro per i mafiosi, e impostò una strategia organica di contrasto alla criminalità organizzata. Ma era già tardi. Stava costruendo il futuro, ma il presente lo stava condannando.»
“Menti raffinatissime” e il pericolo incombente
Già in vita Falcone era consapevole della rete che si stava stringendo intorno a lui. Non solo mafia, ma anche altri poteri. «Lui stesso parlava di menti raffinatissime. Un termine inquietante, che alludeva a qualcosa di più profondo, più oscuro di una semplice organizzazione criminale. Capiva perfettamente che Cosa Nostra non era sola. C’erano complicità, ambiguità, silenzi colpevoli. Non era solo un bersaglio della mafia: era un ostacolo per chi voleva mantenere lo status quo.»
Il fallito attentato dell’Addaura fu un campanello d’allarme drammatico. «Una borsa piena di esplosivo trovata vicino alla sua villa sul mare. Era un messaggio. Un avvertimento preciso: ‘ti possiamo colpire ovunque’. Eppure Giovanni non si fermò mai.»
Paolo Borsellino: “Adesso tocca a me”
Il ricordo si fa ancora più denso di emozione quando Ayala parla di Paolo Borsellino.
«Ai funerali di Falcone, Paolo era devastato. In quegli occhi si leggeva il presagio della fine. E pronunciò una frase terribile: ‘Adesso tocca a me.’ Lo disse senza enfasi, quasi con rassegnazione. E in effetti, meno di due mesi dopo, il 19 luglio, saltò in aria in via D’Amelio con cinque agenti della sua scorta.»
«Era lucido, sapeva che il tempo era finito, ma non si tirò indietro. Nessuno di noi lo fece.»
La paura: compagna e nemica
Il coraggio dei due giudici è diventato leggenda, ma Ayala non ha paura ad ammettere la verità: la paura esisteva.
«Mentirei se dicessi che non ho mai avuto paura. In quei giorni, ogni passo poteva essere l’ultimo. Ma la differenza sta nel non lasciarsi bloccare. Come diceva Giovanni, il problema non è avere paura, ma farsi condizionare dalla paura. E noi, con tutti i limiti umani, non ci siamo mai fatti fermare.»
Ricorda anche il titolo del suo libro, scritto in memoria dei due magistrati: Chi ha paura muore ogni giorno. Sulla copertina, una frase di Borsellino: “È bello morire per ciò in cui si crede. Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.”
Il lascito umano e professionale
Quando si parla di eredità, Ayala si commuove ancora una volta.
«Giovanni Falcone mi manca ogni giorno. Mi manca il suo spirito, la sua intelligenza, la sua ironia. Ma più di tutto mi manca l’amico. È stato lui a credere in me, a darmi valore, a farmi sentire utile. E poi… poi me l’ha cambiata anche quando se n’è andato. Perché da allora c’è un vuoto dentro che non si colma. E io, a quell’uomo, devo tutto.»