Sostenibilità oltreconfine: quando i limiti della virtù nascondono l’esternalità del danno

Cosa si nasconde dietro le virtù ambientali di Paesi e aziende? Spesso, un sistema di scambi ineguali che sposta altrove inquinamento, sfruttamento e responsabilità. Questo articolo smonta la retorica della sostenibilità locale, mettendo a fuoco le esternalità invisibili e le implicazioni geopolitiche di una transizione ecologica che, più che globale, resta profondamente ingiusta.

Nel lessico della sostenibilità si parla spesso di indicatori, performance, miglioramenti misurabili. Le metriche ci rassicurano: emissioni pro capite, consumo di suolo, riciclo, efficienza energetica. Tuttavia, se allarghiamo il campo visivo oltre i confini amministrativi, geografici o aziendali, la narrazione si complica. E con essa, la verità.

Confini e conflitti

Molti dei “conflitti” ambientali – e delle contraddizioni che emergono nelle agende per la sostenibilità – nascono proprio dalla necessità di difendere un confine. Che sia nazionale, aziendale o di filiera, ogni perimetro diventa anche un recinto di responsabilità e, soprattutto, di merito. Ma la sostenibilità non è mai un fenomeno chiuso: è sistemica, interconnessa, fluida. E ogni tentativo di circoscriverla rischia di produrre effetti spesso volutamente distorsivi.

A ben vedere, la radice del problema non è nuova. Aver diviso il mondo in proprietà – private o nazionali – ha da sempre generato conflitti, tensioni e strategie di difesa. Difesa di ciò che per diritto è nostro, ma che per natura è condiviso: l’acqua, l’aria, i suoli fertili, le risorse. La logica proprietaria, pur essendo fondamento della modernità economica, entra in attrito con la realtà ecologica, dove i sistemi sono connessi e i confini sono porosi. Questo vale anche per la proprietà privata come concetto culturale, che tende a localizzare la responsabilità e a rimuovere l’idea di interdipendenza.

Lo stesso schema si ripropone con la sostenibilità. Invece di affrontare i problemi in modo strutturale e globale, si cerca spesso di gestirli a livello locale, spostandoli altrove o cambiandone la forma affinché non siano più contabilizzabili. È una dinamica che riguarda la produzione, l’inquinamento, i rifiuti. Ma anche le politiche pubbliche e gli equilibri internazionali.

Il paradosso del decoupling

In molti rapporti internazionali si citano i casi virtuosi dei paesi occidentali, in particolare europei – l’Olanda ne è un esempio –, dove il PIL cresce mentre le emissioni sembrano calare. Ma la lettura cambia se allarghiamo lo sguardo. Questi paesi, apparentemente così virtuosi, hanno solo da tempo delocalizzato gran parte della loro produzione industriale, importando beni da Paesi con standard ambientali, minori standard in materia di diritti civili e salari più contenuti. Così, mentre le emissioni “domestiche” scendono, quelle “importate” – cioè contenute nei beni e servizi consumati – restano fuori bilancio. Il bilancio che conta davvero, però, è quello del pianeta.

È il fenomeno delle emissioni embodied, o “incorporate”, nei prodotti. Un’economia può apparire green solo perché ha saputo esternalizzare i propri impatti ambientali verso il Sud del mondo. Lì dove le norme sono più deboli, le tutele del lavoro scarse e l’accesso ai diritti ambientali limitato.

Geopolitica della sostenibilità

Come ricorda il filosofo giapponese Kohei Saito, per far funzionare davvero il sistema delle esternalità ambientali è necessario traslare geograficamente il danno. È un meccanismo tanto cinico quanto funzionale: i Paesi ricchi sostengono la propria “transizione ecologica” spostando la produzione in aree dove le conseguenze ambientali, sociali e sanitarie non si vedono, o si ignorano.

Questa traslazione geografica ha effetti anche sul piano democratico. Perché le esternalità ambientali possano continuare a essere assorbite, spesso è conveniente – se non necessario – rafforzare regimi autoritari o sostenere governi non democratici nei Paesi produttori. Lì dove si estraggono materie prime per batterie, turbine e pannelli solari, o si smaltiscono i rifiuti elettronici, chimici o nucleari del Nord del mondo, non di rado i diritti umani e ambientali vengono sospesi in nome della stabilità e del profitto.

Alla luce di questo, molti fenomeni che oggi consideriamo “green” andrebbero riletti con una visione “zoom out”. L’approvvigionamento di uranio per il nucleare, il ciclo di vita delle batterie al litio, l’estrazione di terre rare per le tecnologie digitali e materie prime per la produzione di pannelli solari, così come il trattamento dei rifiuti tossici ed elettronici, raccontano un’altra storia: quella di una transizione pulita da un lato, e di disastri ambientali e sociali dall’altro – oggi evidenti in molti territori del Sud globale, domani nei nostri stessi ecosistemi interconnessi.

Zoom in / Zoom out

Il pensiero complesso ci insegna l’importanza di saper cambiare punto di osservazione. Il “zoom in” – tipico dell’analisi locale – ci consente di valorizzare le buone pratiche e le eccellenze, ma il “zoom out” – necessario per comprendere le interdipendenze – ci impone di confrontarci con le contraddizioni.

Così, una città carbon neutral può risultare tale solo perché importa energia pulita e materiali estratti altrove con pratiche tutt’altro che sostenibili. Un’azienda può vantare bilanci ESG impeccabili, ma a condizione di chiudere gli occhi sui comportamenti dei fornitori in aree poco regolamentate. In altre parole, più allarghiamo il campo, più emerge la realtà: la sostenibilità di qualcuno può poggiare sull’insostenibilità di altri.

Verso una sostenibilità senza confini?

Se vogliamo davvero affrontare la crisi ecologica con onestà, dobbiamo accettare l’idea che la sostenibilità non possa più essere misurata solo dentro i confini. Serve un pensiero ecologico capace di cogliere le interdipendenze, le esternalità, e soprattutto le responsabilità condivise. E serve una nuova etica della trasparenza, in grado di smascherare l’illusione della virtù a compartimenti stagni.

Solo allora potremo iniziare a parlare di sostenibilità non come di una performance locale, ma come di una prosperità diffusa e di un bene comune globale.

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