A raccontarlo è Gilberto Di Benedetto, che descrive con grande lucidità come questo progetto — nato dalla collaborazione tra CSI, il professor Rizzini e il professor Cirone — rappresenti uno dei tentativi più audaci di integrare arte, psicologia del profondo e neuroscienze. Michael’s Gate, nella visione di Hypnos, è sempre stato un varco: un portale che lascia intravedere ciò che normalmente resta sepolto nelle regioni più remote dell’inconscio. L’intelligenza artificiale, sorprendentemente, non entra in contrasto con questa dimensione, ma diventa uno strumento capace di amplificarla.Non è un mezzo che spiega o riduce; è un mezzo che attraversa.
Di Benedetto sottolinea come la tecnologia non abbia il compito di “tradurre” l’archetipo in formule semplificate, ma di entrare in risonanza con esso. L’algoritmo non viene addestrato per dare risposte rigide, bensì per riconoscere pattern emotivi e reagire in modo coerente con la densità simbolica dell’opera. Michael’s Gate non perde la sua ambiguità, non viene spogliato della sua aura metafisica: conserva la sua complessità, mentre la macchina diventa un compagno di viaggio capace di illuminare aspetti nascosti dello sguardo umano.
La chiave scientifica del progetto è la teoria del professor Rizzini sulla mimica orofacciale, una disciplina che studia i micro-movimenti della bocca e del volto come indicatori delle emozioni e degli stati interni. Collegando una telecamera a questo modello e inserendo Michael’s Gate all’interno di un algoritmo dedicato, accade qualcosa di straordinario: l’opera inizia a rispondere allo spettatore.
Sotto gli occhi di chi osserva, Michael’s Gate si muove, si trasforma, muta forma e colore sulla base degli impulsi emozionali raccolti in tempo reale.
Lo spettatore non guarda più l’opera: è l’opera che guarda lui.
Di Benedetto racconta che questa interazione avrà inevitabilmente un impatto psicologico profondo. Le persone saranno chiamate a confrontarsi con una rappresentazione simbolica di ciò che il loro volto comunica inconsciamente. Non più una fruizione passiva, ma un’esperienza riflessiva, quasi terapeutica: un incontro con se stessi mediato da un linguaggio visivo che trae alimento tanto dall’arte quanto dall’intelligenza artificiale.
Ci si domanda allora se tutto questo rappresenti un semplice progresso tecnologico o se, piuttosto, non sia il segnale di una nuova forma di introspezione collettiva. Di Benedetto non ha dubbi: l’AI, in questo progetto, non costruisce una macchina che “legge” l’uomo, ma uno specchio che lo rivela. Un dispositivo che non pretende di comprendere tutto, ma che rende visibile ciò che spesso sfugge anche allo sguardo interiore.
Eppure resta un confine che la tecnologia non potrà mai superare del tutto. Hypnos parla spesso di “leggere l’invisibile”, di cogliere quelle vibrazioni psichiche che non si esprimono né nel volto né nella parola. Di Benedetto riconosce che gli algoritmi possono avvicinarsi molto a ciò che è nascosto, ma non potranno mai sostituire l’intuizione umana, l’esperienza, la sensibilità del terapeuta o dell’artista. L’invisibile resta un territorio che appartiene all’uomo, non alla macchina.
Ma è proprio in questa complementarità che il progetto trova la sua forza: l’uomo e la tecnologia non si sfidano, si osservano. Hypnos porta la sua capacità di penetrare simboli e visioni; l’AI porta la sua abilità di riconoscere pattern che sfuggono al controllo cosciente. Insieme costruiscono un nuovo linguaggio, un ponte tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo.
Michael’s Gate diventa così un ambiente vivo, un varco che reagisce, risponde, interpreta senza giudicare. Un oracolo digitale che non predice il futuro, ma illumina il presente emotivo di chi gli si pone davanti.
Un’opera che, grazie all’incontro tra arte e scienza, continua a fare ciò che l’arte autentica ha sempre fatto: rivelare l’uomo a se stesso.








