Bianconi ha subito tracciato un confronto con il sistema giudiziario degli Stati Uniti, dove i giudici sono eletti direttamente dal popolo e hanno, quindi, una connotazione politica esplicita. Negli Stati Uniti, come insegna Alexis de Tocqueville, il sistema democratico è nato con l’idea di eleggere le cariche di governo piuttosto che di creare un sistema basato su maggioranze e opposizioni assembleari, tipico delle democrazie parlamentari europee. In questo contesto, i giudici americani hanno finito per occupare il vuoto lasciato dalle opposizioni politiche. Bianconi cita come esempi le vicende di presidenti come Richard Nixon, Bill Clinton e Donald Trump, tutte segnate dall’intervento decisivo della magistratura, spesso utilizzata come strumento per contrastare figure politiche potenti.
Questo modello, però, secondo Bianconi, non si applica all’Italia, dove il sistema è fondato sulla separazione dei poteri secondo i principi delle democrazie liberali. Citando Montesquieu, egli sottolinea come la divisione tra il potere giudiziario, esecutivo e legislativo dovrebbe garantire l’autonomia di ciascun settore, senza permettere interferenze reciproche. Tuttavia, a partire dagli anni ’60, Bianconi sostiene che in Italia si sia verificata una progressiva erosione di questa separazione, con i giudici che hanno iniziato a esercitare una crescente influenza sulle decisioni politiche.
Secondo Bianconi, questa invasione del potere giudiziario nel campo politico si è consolidata in vari momenti della storia repubblicana, influenzando profondamente le sorti dei governi dal 1994 in poi. Egli afferma che la debolezza strutturale del sistema politico italiano, caratterizzato da divisioni interne, fragilità e corruzione, ha aperto la strada all’ascesa di un potere giudiziario sempre più forte e invasivo. I giudici, investiti da un crescente consenso popolare e alimentati dal sostegno mediatico, hanno colto l’opportunità per riempire i vuoti lasciati dalla politica, assumendo un ruolo che è andato oltre la semplice applicazione della legge, arrivando a influenzare direttamente le dinamiche di governo.
Un punto cruciale dell’analisi di Bianconi è l’evoluzione storica del fenomeno delle “toghe rosse”, emerso alla fine degli anni ’60. In particolare, Bianconi fa riferimento ai “pretori del lavoro”, i primi magistrati che hanno cominciato a interpretare la giurisdizione come strumento di lotta politica. Questo atteggiamento si è esteso progressivamente a una parte sempre più ampia della magistratura, creando uno spazio in cui i giudici non si limitavano a far rispettare le leggi, ma cercavano attivamente di influenzare il cambiamento sociale e politico. Un esempio emblematico di questa tendenza, secondo Bianconi, è il film di Dino Risi In nome del popolo italiano del 1971, in cui Ugo Tognazzi interpreta un giudice impegnato in un’indagine che lo porta a una decisione moralmente discutibile: distruggere una prova che scagiona un uomo colpevole agli occhi dell’opinione pubblica, per perseguire un obiettivo di giustizia rivoluzionaria.
Bianconi distingue poi il fenomeno di Mani Pulite, che ha scosso l’Italia nei primi anni ’90. Pur riconoscendo l’importanza storica di questa stagione, egli sostiene che i protagonisti di quell’epoca non fossero necessariamente “toghe rosse”, anche se ci fu una convergenza tra i magistrati e alcuni partiti di sinistra. Tuttavia, egli accusa la sinistra italiana di non aver compreso appieno il ruolo che stava giocando, ritrovandosi a fare, secondo una celebre definizione di Lenin, la parte dell'”utile idiota”, cioè di chi, inconsapevolmente, sostiene un disegno che finirà per danneggiare gli stessi interessi che intende proteggere.
Sul fronte opposto, Bianconi critica la destra italiana per aver spesso sbagliato obiettivo, attaccando figure politiche come Elly Schlein e i suoi seguaci, che egli considera bersagli secondari. Secondo lui, i veri avversari della destra non sono i partiti progressisti, ma coloro che continuano a seguire l’eredità di Francesco Saverio Borrelli, il capo del pool di Mani Pulite. Egli sottolinea come la magistratura, a partire da quegli anni, abbia perseguito un ambizioso progetto di potere autonomo, che l’ha portata a interferire sempre di più nella politica.
Un momento chiave di questa deriva, secondo Bianconi, fu una dichiarazione di Borrelli al Corriere della Sera, in cui evocava la possibilità di un “cataclisma” politico che avrebbe potuto aprire la strada a un intervento diretto dei magistrati nel governo del paese. Sebbene questa visione non si sia mai realizzata pienamente, Bianconi ritiene che la via sia stata tracciata: da allora la magistratura, con il sostegno del suo sindacato (ANM), si è affermata come un vero e proprio attore istituzionale, capace di condizionare le scelte di governo e di influenzare le carriere politiche di molti leader, tra cui lo stesso Matteo Renzi.
L’affaire Palamara, con lo scandalo che ha travolto parte della magistratura, ha dimostrato, secondo Bianconi, le anomalie di un sistema che ha acquisito troppo potere e che è diventato sempre più autoreferenziale. Tuttavia, nonostante lo scandalo, il progetto della magistratura autonoma è andato avanti, anche se con un consenso pubblico inferiore rispetto al passato.
Infine, Bianconi si sofferma su ciò che definisce un’escalation recente degli interventi della magistratura, soprattutto in coincidenza con elezioni regionali e comunali. Egli denuncia come vi siano state interferenze ad hoc, giustificate formalmente dal rispetto delle leggi, ma volte a contrastare le scelte politiche più sensibili del governo in carica. Bianconi conclude che questa ricerca di un “cataclisma” politico potrebbe aprire la strada a una presa diretta del potere da parte della magistratura, con il supporto di un presidente della repubblica compiacente e l’appoggio della burocrazia e della finanza. In questo scenario, il vero interesse dei cittadini sarebbe messo da parte, mentre destra e sinistra continuerebbero a recitare un ruolo marginale in un “teatrino” sterile e obsoleto.
Questa lettura degli eventi rappresenta una critica radicale al potere crescente della magistratura in Italia, e riflette le preoccupazioni di una parte della politica italiana riguardo a un sistema giudiziario che, secondo questa visione, ha progressivamente assunto un ruolo politico dominante, mettendo in crisi i fondamenti stessi della democrazia rappresentativa.