La cucina italiana patrimonio UNESCO: orgoglio nazionale e sfida per il futuro

Le voci di Igles Corelli, Luca Vissani e Carlo Verdone tra entusiasmo, richieste alla politica e difesa del vero Made in Italy. Il riconoscimento dell’UNESCO alla cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità corona un percorso lungo anni e consacra a livello mondiale ciò che gli italiani sanno da sempre: il cibo non è solo nutrimento, ma identità, rito sociale, memoria condivisa. Ma accanto all’orgoglio, dal mondo degli chef e delle associazioni arriva un messaggio chiaro: senza politica, formazione e lotta alle imitazioni, il sigillo UNESCO rischia di restare solo un marchio da vetrina.

La decisione dell’UNESCO di inserire la cucina italiana nella Lista del Patrimonio culturale immateriale dell’umanità segna un passaggio storico. Non si tratta del riconoscimento di un singolo piatto o di una tecnica specifica, come avvenuto in passato per l’arte del pizzaiolo napoletano o per la Dieta Mediterranea, ma di un intero sistema: quello della cucina italiana nel suo complesso, dalle tradizioni domestiche ai grandi ristoranti, passando per mercati, botteghe artigiane, filiere agricole e territori.

La candidatura, costruita negli anni da studiosi, associazioni e istituzioni, insiste proprio su questo aspetto: la cucina italiana come pratica sociale, rito collettivo, elemento identitario che tiene insieme biodiversità, paesaggi e comunità locali. Una trama fitta fatta di gesti quotidiani, saperi tramandati in famiglia, manualità artigianale e creatività contemporanea.

Il riconoscimento arriva in una fase delicata: mentre l’export agroalimentare italiano continua a correre e il marchio “Italia” mantiene un fascino globale fortissimo, la ristorazione interna affronta costi crescenti, carenza di personale e una concorrenza internazionale sempre più aggressiva. È in questo scenario che assumono un peso particolare le parole di tre protagonisti ascoltati ai microfoni di Casa Radio: Igles Corelli, Carlo Verdone (presidente di FederItaly) e Luca Vissani. Tre sguardi diversi, un filo rosso comune: trasformare l’onore dell’UNESCO in un impegno quotidiano.

Igles Corelli: “Riconoscimento filosofico, ma la politica deve fare di più”

Igles Corelli, maestro della cucina italiana, cinque stelle Michelin in carriera e volto noto anche al grande pubblico televisivo, accoglie la decisione con entusiasmo, ma senza cedere alla retorica. La sua lettura è insieme appassionata e severa.

«Sicuramente è un fatto positivo, per l’Italia è un riconoscimento a tutti i nostri produttori, è un riconoscimento filosofico di cucina e accoglienza italiana», sottolinea Corelli, ricordando che al centro non c’è solo lo chef, ma l’intera catena che va dai campi al piatto.

Il passaggio chiave è proprio quell’aggettivo, “filosofico”: il sigillo UNESCO non riguarda solo la qualità del cibo, ma il modo in cui l’Italia ha saputo trasformare l’atto di cucinare e di stare a tavola in un linguaggio condiviso, in un codice di ospitalità riconosciuto nel mondo.

Poi, la virata netta verso i nodi irrisolti del settore:

«È comunque sempre un percorso per creare finalmente i presupposti non solo dell’accoglienza, non solo del prodotto, ma anche della cucina italiana. […] La politica deve fare qualcosa di più perché la ristorazione in questo momento è in grandissima sofferenza e le scuole non producono personale.»

È una fotografia che ristoratori e operatori conoscono bene: sale che faticano a trovare camerieri formati, cucine in cui mancano figure stabili, istituti alberghieri che fanno fatica a stare al passo con le esigenze di un settore in rapido cambiamento. Mentre il mondo celebra la cucina italiana, molti locali, soprattutto nelle città medio-piccole e nelle aree interne, combattono ogni giorno per tenere accese le luci.

Corelli indica con chiarezza la necessità di un intervento strutturale: investimenti nella formazione, una revisione dei percorsi scolastici, politiche attive del lavoro mirate alla ristorazione. Senza personale qualificato e motivato, il patrimonio immateriale rischia di diventare una narrazione senza futuro.

Luca Vissani: “Un traguardo costruito da tutta la filiera”

Se la voce di Corelli richiama alla responsabilità della politica, quella di Luca Vissani – alla guida di Casa Vissani, realtà simbolo dell’alta ristorazione familiare – mette l’accento sulla dimensione corale di questo risultato.

«L’Italia patrimonio mondiale della cucina italiana, l’aspettavamo da tempo, è un grande orgoglio per tutti noi», afferma Vissani, leggendo il riconoscimento come un punto di arrivo costruito pezzo per pezzo lungo tutta la filiera.

Non solo grandi chef, dunque, ma allevatori, agricoltori, artigiani del gusto, piccoli produttori che hanno conservato varietà locali e metodi tradizionali; e ancora, ristoratori di provincia, trattorie di paese, osterie che hanno tenuto vivi piatti e rituali legati alle comunità locali.

«Insieme ai produttori, insieme ai colleghi, insieme a tutta la filiera agroalimentare abbiamo contribuito negli anni – insieme anche naturalmente al governo – a rendere possibile questo bellissimo traguardo. Non poteva essere diversamente. Quindi tanto, tanto orgoglio», aggiunge Vissani.

È una rivendicazione che ribalta la prospettiva: il patrimonio riconosciuto dall’UNESCO non è il risultato di pochi nomi celebri, ma di un lavoro diffuso, capillare, spesso silenzioso. E proprio per questo, suggerisce Vissani, la tutela dovrà essere altrettanto diffusa, coinvolgendo ogni anello della filiera, dai campi alle cucine.

Carlo Verdone (FederItaly): “Non è un menù, è la nostra identità”

La terza voce simbolica è quella di Carlo Verdone, presidente di FederItaly, associazione impegnata nella difesa del Made in Italy contro falsificazioni e abusi del marchio. La sua lettura è esplicitamente identitaria.

«Ieri è stato un momento, devo dire, di grandissima emozione, un motivo di orgoglio enorme. La nostra cucina che entra nei patrimoni immateriali dell’umanità dell’Unesco è veramente un motivo di orgoglio nazionale, perché la nostra cucina non è un insieme di ricette ma è un pezzo della nostra identità», afferma Verdone.

Il salto concettuale è netto: la cucina non è solo un settore economico o un comparto del turismo, ma un elemento fondante del modo in cui l’Italia si percepisce e si racconta. La tavola come luogo di relazione, di confronto intergenerazionale, di integrazione tra culture diverse che abitano lo stesso territorio.

Ma subito dopo arriva l’avvertimento più duro, rivolto a quella galassia indistinta di “cucine italiane” che popolano i cinque continenti, spesso solo di nome:

«Adesso dobbiamo tutelare la nostra tradizione ancora di più, vigilare sulle distorsioni, perché la carbonara con la panna, gli spaghetti al ketchup, sono un’aberrazione e devono essere allontanati con orrore dalla nostra idea di cucina. Oggi celebriamo chi siamo davvero, ed è bellissimo, ma proprio per questo abbiamo il dovere di difenderlo.»

Nel mirino non ci sono solo le improvvisazioni folkloristiche, ma l’intero fenomeno dell’“Italian sounding”: locali che si definiscono italiani pur non avendo alcun legame reale con la cultura gastronomica del Paese, prodotti che espongono colori o nomi italiani senza rispettare origini, ingredienti e metodi di produzione.

Il riconoscimento UNESCO, nella lettura di Verdone, può diventare un’arma in più: se la comunità internazionale riconosce la cucina italiana come patrimonio dell’umanità, allora l’Italia ha tutta la legittimità per chiedere regole più stringenti sull’uso di richiami all’italianità, sia nei prodotti che nei servizi di ristorazione.

Tra orgoglio e timori: il rischio della “generalizzazione”

Accanto all’entusiasmo, nel dibattito emerge una preoccupazione trasversale: il rischio che il marchio “cucina italiana patrimonio UNESCO” venga utilizzato in modo generico, indistinto, diventando un’etichetta da marketing buona per tutti i gusti, anche i meno autentici.

Chi potrà, in concreto, rivendicare questo riconoscimento? Un qualsiasi ristorante all’estero che proponga un “Italian menu”, magari gestito da una proprietà non italiana e con ingredienti di dubbia provenienza? Basterà appendere una bandiera tricolore all’ingresso per accreditarsi come parte di quel patrimonio?

Il fenomeno è già evidente: centinaia di migliaia di locali nel mondo si definiscono “italiani” o propongono piatti tradizionali “alla maniera italiana”, ma spesso si tratta di versioni annacquate, adattate in modo estremo ai gusti locali, quando non completamente stravolte. Il paradosso è che proprio il successo globale di questo immaginario rischia di rendere indistinguibile l’autentico dal falso.

Ecco perché il sigillo UNESCO, da solo, non basta. Servono sistemi seri di certificazione per i ristoranti italiani nel mondo, protocolli chiari che stabiliscano requisiti minimi di autenticità, controllo sulla provenienza degli ingredienti, sulla formazione del personale, sul rispetto delle ricette e delle tecniche fondamentali. Non per ingabbiare la creatività, ma per tracciare un confine netto tra interpretazione e caricatura.

Cibo, territori, turismo: un tema anche “di abitare”

La cucina italiana patrimonio UNESCO non è solo una notizia che riguarda il mondo del cibo: si intreccia direttamente con i temi dell’abitare, del paesaggio, del turismo e della rigenerazione urbana e rurale.

La tavola è uno dei principali motivi per cui l’Italia viene scelta come destinazione turistica. Ma dietro un piatto tipico ci sono paesi, borghi, case rurali, agriturismi, mercati rionali, botteghe storiche. Difendere la cucina italiana significa, di fatto, difendere paesaggi agricoli, centri storici, modelli di ospitalità diffusa che stanno alla base dell’identità dei territori.

Per molti borghi a rischio spopolamento, l’enogastronomia è già oggi una delle leve principali di rinascita: aprire una trattoria, valorizzare un prodotto locale, costruire percorsi di degustazione e visita può diventare il motore di nuove economie, di ritorni alla terra, di turismo più lento e consapevole. In questo senso, il riconoscimento UNESCO offre un ulteriore argomento per politiche di sviluppo che sostengano queste esperienze, anziché lasciarle sole nella competizione globale.

Le tre urgenze per il “dopo-UNESCO”

Dalle parole di Corelli, Vissani e Verdone emerge, in filigrana, un’agenda minima per trasformare il riconoscimento in strategia.

1. Formazione e lavoro di qualità nella ristorazione.
La denuncia di Corelli su scuole che “non producono personale” chiama in causa l’intero sistema formativo. Serve una riforma profonda degli istituti alberghieri, una collaborazione più stretta con le aziende del settore, percorsi di apprendistato veri e non solo formali. E, parallelamente, servono contratti chiari, condizioni di lavoro sostenibili, percorsi di carriera che rendano attrattivi i mestieri di sala e di cucina.

2. Lotta alle imitazioni e tutela del Made in Italy.
Il monito di Verdone contro carbonare snaturate e spaghetti al ketchup è la parte visibile di una battaglia più ampia: quella contro i falsi prodotti e le etichette ingannevoli. In gioco ci sono miliardi di euro di valore sottratto alle filiere italiane e, insieme, la credibilità stessa del marchio Italia. Occorre rafforzare i sistemi di tracciabilità, sostenere le imprese che scelgono la qualità, difendere giuridicamente i nomi dei prodotti tradizionali e coordinare azioni a livello europeo e internazionale.

3. Politiche pubbliche di lungo respiro.
Le richieste di Vissani e Corelli convergono su un punto: la cucina non può essere utilizzata solo come bandiera nelle campagne promozionali dello Stato. Servono politiche fiscali che tengano conto della fragilità delle imprese della ristorazione, misure per favorire la transizione ecologica delle filiere (dalla riduzione degli sprechi alla gestione dei consumi energetici), investimenti su turismo gastronomico e sui territori rurali, evitando che i piccoli produttori vengano schiacciati da logiche puramente industriali.

Un patrimonio vivo, non un trofeo in bacheca

La cucina italiana entra così nel grande album dei patrimoni immateriali dell’umanità. Ma a differenza di un monumento o di un sito archeologico, questo patrimonio vive solo se viene praticato ogni giorno: nelle case, nelle trattorie, nei ristoranti stellati, nelle mense scolastiche, nei mercati, nelle feste di paese.

Le parole di Igles Corelli, Luca Vissani e Carlo Verdone tracciano una linea chiara. L’orgoglio è legittimo, quasi inevitabile, in un Paese che sul cibo ha costruito una parte fondamentale della sua immagine nel mondo. Ma la vera sfida comincia adesso: trasformare un riconoscimento internazionale in politiche, scelte, responsabilità concrete.

Se l’Italia saprà cogliere questa occasione, il bollino dell’UNESCO non sarà solo un logo da conquistare turisti, ma il simbolo di un impegno collettivo: quello di continuare a fare della cucina un luogo di qualità, di rispetto per le persone e per la terra, di innovazione che non tradisce le radici. Altrimenti, resterà un bel titolo da prima pagina, destinato a sbiadire alla prossima moda globale.

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Puntata del 11/12/25
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