C’è una storia che da anni ripetiamo a noi stessi: la plastica è riciclabile, quindi non è più un problema. È diventata quasi un mantra collettivo, un modo per tranquillizzare le coscienze mentre continuiamo a consumare come se nulla fosse.
Eppure quella storia oggi mostra tutte le sue crepe. Si sta sgretolando sotto il peso dei fatti, così come si sta sgretolando l’intero sistema economico neoliberista e consumistico che l’ha generata. E ciò che emerge non è solo un errore di comunicazione, ma un paradosso culturale e sistemico.
La crisi del riciclo lo dimostra con chiarezza. È di questi giorni la notizia che gli impianti di riciclo della plastica in Italia stanno rallentando o chiudendo, non perché manchi la materia prima, anzi, ma perché non esistono più le condizioni economiche per rigenerarla. ASSORIMAP, l’Associazione Nazionale Riciclatori e Rigeneratori di Materie Plastiche, che rappresenta la quasi totalità della filiera, parla apertamente di un settore allo stremo: tra il 2021 e il 2023 gli utili sono crollati dell’87%, passando da circa 150 milioni a appena 7 milioni di euro.
Questo significa che il riciclo non trova più mercato. La plastica riciclata non riesce a competere con quella vergine, che costa meno e offre performance più stabili. ASSORIMAP avverte che lo stallo rischia di bloccare l’intero sistema dei rifiuti plastici nel giro di poche settimane se non verranno prese misure strutturali.
Nel frattempo, a livello europeo, i rifiuti da imballaggi in plastica sono aumentati del 29,4% rispetto al 2011 (fonte Eurostat). In altre parole: mentre la retorica della sostenibilità avanza, i consumi reali vanno nella direzione opposta.
E così anche il riciclo diventa un alibi perchè nulla cambi alla radice. William Stanley Jevons descrisse questo paradosso nell’Ottocento: quando una tecnologia diventa più efficiente o percepita come tale, il consumo complessivo della risorsa tende ad aumentare. Applicato alla plastica, il meccanismo è evidente.
E così, la plastica più viene raccontata come “riciclabile”, più viene percepita come innocua. La raccolta differenziata è diventata un gesto identitario, quasi un lasciapassare etico, un modo per assolversi da qualsiasi riflessione sulle scelte di acquisto.
Ma mentre depositiamo bottiglie e vaschette nel cassonetto giusto, la produzione di plastica cresce più velocemente della capacità degli impianti di riciclarla e del mercato di assorbirla.
Ecco che il supermercato e il commercio al dettaglio diventano, così, lo specchio più evidente della contraddizione. La grande distribuzione, mentre parla di sostenibilità, introduce sempre più plastica sugli scaffali. Banchi del fresco sostituiti da prodotti preconfezionati, frutta in mini-vaschette, brodo in bric multistrato, acqua in bottiglia, detersivi monouso senza una reale adozione della possibilità di refill: tutto racconta un modello in contraddizione con i principi che dichiara.
In tutto questo anche le parole hanno un loro significato identitario e la plastica da colpevole diventa elemento circolare che da essere bruciata negli inceneritori, ora alimenta i termovalorizzatori, concetto a valenza positiva che tanto piace alla transizione green. La plastica che non trova mercato o non possiede caratteristiche adeguate per essere rigenerata finisce nei termovalorizzatori. Un sistema di riciclo realmente efficiente produrrebbe meno rifiuti non riciclabili, ma questo comprometterebbe la sostenibilità economica dei termovalorizzatori, progettati per funzionare 24/7 tutto l’anno. Lo testimonia la tendenza dei paesi del nord ad acquistare immondizia da termovalorizzare in giro per l’Europa, innescando un meccanismo assolutamente perverso.
Siamo all’assurdo che il nostro sistema economico e lo stile di vita che ne consegue funziona proprio grazie all’inefficienza del paradigma della sostenibilità.
Anche il tecnicismo sta mostrando i suoi limiti: nuovi materiali, impianti avanzati, bonus e certificazioni sono strumenti importanti, ma non possono compensare un modello di consumo eccessivo. Il riciclo non potrà mai colmare il divario tra ciò che immettiamo e ciò che possiamo recuperare se non riduciamo prima la produzione di materia.
Al contrario, è sempre più evidente come il modo di intendere la circolarità come riciclo sia una risposta banale ad un problema molto più complesso. La sostenibilità, infatti, richiede di andare oltre il contenitore e interrogarsi sui comportamenti, sulle filiere, sulle scelte di produzione e distribuzione. Richiede di riconoscere che la svolta non sta nel fare sempre di più, ma nel fare diversamente: non soltanto riciclare meglio, ma generare meno rifiuti; non inseguire tecnologie sempre più evolute, ma ripensare il modello di consumo alla radice.
Foto di Pete Linforth da Pixabay









