Giuseppe Ayala: “A trent’anni dalla strage di Via D’Amelio la ferita e’ ancora aperta“

Giuseppe Ayala: “A trent’anni dalla strage di Via D’Amelio la ferita e’ ancora aperta“

Il giudice Ayala, in diretta ai microfoni di Casa Italia Radio, nella rubrica condotta da Giovanni Lacagnina, nel giorno del ricordo dell’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, analizza i lati oscuri delle stragi di mafia.

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Era il 19 luglio 1992 quando Paolo Borsellino perse la vita in quell’attentato mafioso insieme ai cinque agenti della sua scorta. Soltanto 57 giorni dopo il vile attentato di Capaci a Giovanni Falcone e alla sua scorta, ormai sono passati molti anni, ma sulla strage di via D’Amelio e a caso dei numerosi depistaggi, non si è ancora fatta chiarezza. Perché? Ne vorrei parlare con il giudice Giuseppe Ayala. Questo 19 luglio 1992 rimane un una ferita aperta per l’Italia?

E sì, la ferita è aperta non c’è dubbio, perché in questa vicenda c’è stato un percorso giudiziario che ha dell’incredibile. Un depistaggio come qualcuno, giustamente, secondo me lo ha definito unico per gravità nella storia giudiziaria italiana. E la verità, almeno quella che tutti avremmo diritto a conoscere, non è ancora venuta fuori e su una strage tremenda come quella del 19 luglio 92, questo lascia una grande amarezza, credo a tutti, non solo agli amici di Paolo, ai parenti soprattutto, ma anche agli amici. Disorienta i cittadini, secondo me purtroppo e mi dispiace doverlo dire, ma è una realtà che è sotto gli occhi di tutti.

Sono stati molti i pentiti di mafia in questi anni per cercare di arrivare alla verità. Verità che non arriva comunque, come giustamente sottolineava lei, ce ne vorrebbe uno di Stato?

Ricordo sempre quello che disse Giovanni Falcone quando scampò all’attentato all’Addaura preparato a suo danno nel giugno dell’89, quando parlò di menti raffinatissime, cito testualmente, e di centri occulti di potere capaci anche di orientare le scelte di Cosa Nostra. Se Giovanni aveva ragione, ed è molto probabile che lo avesse, è lo stesso scenario del 23 maggio 92 e del 19 luglio 92. Evidentemente qualcuno mi deve spiegare perché dovrebbe essere diverso. L’unica diversità, per fortuna, è che quell’attentato non andò in porto e invece, purtroppo quelli del 92 sì. E allora questi centri occulti di potere, queste menti raffinatissime, dove sono? E questa è la bella domanda a cui io francamente non so dare una risposta. Se da lì venisse una collaborazione con la giustizia, forse finalmente avremmo una verità degna di essere definita tale. Ma ci credo poco.

In quel 19 luglio del 1992, ricordiamolo, persero la vita insieme al magistrato Paolo Borsellino, anche i cinque agenti della scorta. Noi lo sottolineiamo sempre con grande, doverosa coscienza Agostino Catalano, dicevo Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi,, prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio. E purtroppo furono momenti tremendi, sono tanti anni e la ferita è ancora aperta.

Non c’è dubbio su questo. E non vedo prospettive di risanamento della ferita. Penso soprattutto ai familiari, naturalmente agli amici, a quelli che abbiamo lavorato con lui per anni, ma a tutti i cittadini italiani che avrebbero tra i vari diritti il diritto a conoscere la verità. Questo è un diritto inalienabile.

Certo, sono passati appunto trent’anni da quel giorno, . Quali sono le cose che è importante che la gente sappia e che invece non sono state sottolineate abbastanza?

Facevo poco fa l’accenno a quella diagnosi da me condivisa di Falcone, cioè il fatto che non c’è dubbio che Cosa Nostra è responsabile di queste stragi, questo è fuori discussione, il problema è che molto verosimilmente è una diagnosi che va condivisa, purtroppo non era solo roba di Cosa Nostra. Il problema era andare a trovare queste altre componenti che probabilmente sono componenti istituzionali deviate. Ovviamente è superfluo dirlo. E lì siamo ancora lontani e anzi li non francamente molte speranze non le coltivo di poter un giorno arrivare a conoscere tutta la verità però la speranza è l’ultima a morire e la teniamo in vita.

Tra Capaci e via D’Amelio corrono 57 giorni, il destino di Falcone e Borsellino era segnato, l’Ordine delle loro morti è stato casuale secondo lei o ora prestabilito?

La mia opinione è che Giovanni paga soprattutto il suo ruolo al Ministero della Giustizia come direttore generale degli AffariPpenali, perché in quella veste aveva cominciato a lavorare a una novità che preoccupava molto Cosa Nostra che era la Procura Nazionale Antimafia. Aveva cominciato a immaginare il famoso regime del 41 bis, cioè il carcere duro per gli esponenti di Cosa Nostra. Quindi evidentemente l’uccisione di Falcone è legata soprattutto a questo, ma secondo me è anche legata al fatto che il maxiprocesso fu giudicato dalla Cassazione il 30 del gennaio 92 e la sentenza pesantissima di condanna, io ho sostenuto l’accusa in primo grado quel giorno, dopo il processo divennero tutte condanne definitive, ergastoli a tutti i capi di Cosa Nostra, duemila e più anni di carcere agli altri. E invece Cosa Nostra riteneva che in Cassazione il processo sarebbe stato aggiustato per usare un linguaggio loro. Pare che questo impegno l’avesse preso l’onorevole Lima. Infatti Lima viene ucciso a marzo, poco tempo dopo la Cassazione. Perché non era presieduta quella sezione da Carnevale che allora era chiamato ammazza sentenza? Perché Falcone s’inventò la rotazione dei presidenti di sezione della Corte di Cassazione. E il primo presidente della Corte, era Di Brancaccio allora e si orientò nella direzione indicata da Giovanni ha stabilito la rotazione dei presidenti, per cui, guarda caso, all’udienza del 30 gennaio 92 non toccava parlare a Carnevale, ma un magistrato che tutti hanno dimenticato. Io invece no, che si chiamava Arnaldo Valente, e la sentenza fu quella che fu e venne attribuita ovviamente molta responsabilità a Giovanni e soprattutto, prima ancora a Lima, che non aveva mantenuto l’impegno. Quindi Lima venne ucciso a marzo del 1992 e Giovanni, anche, come dicevo prima, per la progettualità che lui aveva in mente come direttore generale Affari Penali, che riguardava la Procura nazionale antimafia, che riguardava il 41 bis, Giovanni muore Sicuramente per questa combinazione di fattori. Onestamente l’uccisione di Borsellino faccio più fatica a individuarne le cause vere, perché Paolo era alla Procurar della Repubblica era tornato a Palermo, perché lui nell’86 si era trasferito a Marsala a fare il Procuratore della Repubblica, ed era tornato a Palermo da pochi mesi, ed era abbastanza accerchiato in ufficio, non gli davano molto spazio. Li ci potrebbe entrare il discorso della famosa trattativa, cioè del fatto che a un certo punto Cosa Nostra, uccidendo anche Borsellino, ritiene di alzare il suo potere contrattuale e di ottenere dallo Stato per esempio che non passasse mai il 41 bis, perché e non sopraggiunsero altre norme severe nei confronti del fenomeno mafioso. E probabilmente l’avevano deciso ammazzarlo sicuramente, ma l’accelerazione per cui passeranno solo 57 giorni è verosimilmente legata all’illusione di Salvatore Riina, soprattutto, ovviamente, ma anche dei suoi accoliti di potere diciamo alzare il loro potere contrattuale a trattare con lo Stato.

Giovanni Brusca è stato tra gli esecutori della strage di Capaci e mandante di quella di via D’Amelio, lo chiederemo dopo di lei, anche all’avvocato Li Gotti, che dovrebbe intervenire in diretta, ha finito di scontare la pena in carcere, oggi è un uomo libero, per lei è giusto?

È una bella domanda e a cui ho già dato una risposta. Di fronte all’interesse dello Stato di individuare i responsabili di delitti straordinariamente gravi come quelli di cui stiamo parlando, trovare un collaboratore di giustizia che ti aiuta e ti dà il sostegno per ottenere la verità e per punire i veri colpevoli, ci vuole un po di cinismo e quindi rendersi conto che, credo che Brusca abbia scontato più di 30 anni di carcere . Bisogna essere forse un po cinici, è il famoso discorso dei costi e ricavi, il ricavo grazie a Berlusca dello Stato è stato un ricavo molto importante, questo è innegabile, il costo è di sapere che dopo vent’anni, dopo 30 anni e in libertà. Ognuno faccia la sua valutazione. Io personalmente la condivido.

Che effetto le fa parlare di di Borsellino oggi? Ogni anno ricordarlo sempre è come mettere il dito nella piaga di questa Italia ferita dalla mafia?

Sarò molto sincero come come a me piace essere. E ogni anno che passa ho la prova che sto invecchiando e che sono più fragile. Quest’anno, per esempio, non mi era mai successoalla messa per Giovanni Falcone sono scoppiato in un pianto che non riuscivo a frenare. Sono passati vent’anni di carcere. Per me sono state due mancanze, tanto che ho avuto il privilegio di lavorare non solo di lavorare, ma di avere dei rapporti che definirei di amicizia. E forse l’ultima era ancora più profonda l’amicizia, quello che ci lega e averli perduti in questa maniera, più tempo passa, più l’amarezza profonda dentro di me cresce. Non c’è niente da fare.

Che ricordo ha di Paolo Borsellino? Mi sembra di ricordare che lei, sia stato uno dei primi ad arrivare a via D’Amelio.

Sono arrivato tra i primissimi perché abitavo a 300/400 metri di distanza, ero a casa e abbiamo sentito un botto talmente forte che pensavo che fosse caduto un aereo. C’era un palazzo di una decina di piani davanti casa mia e questa nube nera che si alzò superava l’altezza di dieci piani. Con la scorta siamo andati in quel luogo e quello che ho visto non lo descrivo, qualcuno ha detto ma purtroppo la cosa che più mi brucia ricordare è che sono inciampato nel tronco bruciato di Paolo, carbonizzato completamente, ho fatto fatica a riconoscerlo. Poi è arrivata la voce che siccome si sapeva che abitavo da quelle parti, s’era sparsa la voce a Palermo che avessero ammazzato me e questa voce purtroppo aveva raggiunto i miei figli. Per fortuna un giornalista mi avvertì e allora io scappai e andai a casa a caccia dei miei figli. Non devo spendere molte parole per descrivere quella scena.

Si parlava di questa famosa agenda rossa di Borsellino, che fine ha fatto questa agenda rossa?

Qualcuno se l’è presa, questo è fuori discussione. Io non lavoravo con Paolo da molti anni perché lui nel dell’86 andò a Marsala e quando tornò a Palermo, Falcone ed io non c’eravamo più alla Procura perché eravamo stati a Roma. Eravamo fuori ruolo. Giovanni, come dicevo prima, faceva il Direttore Generale Affari Penali e io ero Consulente della Commissione Antimafia, quindi che cosa potesse contenere quella borsa non avevo la minima idea, me la sono trovata in mano e l’ho consegnata a due ufficiali dei carabinieri, anche perché io ormai ero parlamentare e non avevo nessun titolo per tenerla e che cosa potesse contenere non ne avevo idea. E poi invece pare che ovviamente contenesse tra l’altro questa agenda di Paolo che è stata fatta sparire e certamente non è stata fatta sparire dalla mafia, questo è poco, ma è sicuro, perché io la consegnai ad un ufficiale dei carabinieri, c’è un filmato che ritrae proprio l’ ufficiale dei carabinieri con la borsa chiusa in mano, che la porta via, e quindi quella scomparsa non è ascrivibile in nessun modo alla mafia ma ascrivibile a roba istituzionale.

Oggi, dopo trent’anni, cosa rimane di Paolo Borsellino? Lui disse mi sembra che disse adesso tocca a me. Dopo la strage di Capaci, lo disse mestamente durante un intervallo delle sue ultime dichiarazioni.

 Ho un ricordo indelebile, io non lo vedevo Paolo, ripeto, perchè lui a Palermo ed io ero già stato eletto in Parlamento pochi mesi prima e conservavo ottimi rapporti anche con Nino Caponnetto, che era stato per noi, una specie di padre a parte che era a capo dell’ufficio. Caponnetto era un personaggio incredibile, avevo sempre contatti con lui per telefono, ci sentivamo specialmente dopo il 23 maggio e lui da Firenze un giorno mi disse: “Ma tu ci vai a Palermo ogni tanto?” e mi disse, “per favore Peppino vai a parlare con Paolo perché l’ho sentito più volte ma non mi piace il suo stato d’animo”. Allora io per un weekend tornai a Palermo, andai a trovare Paolo in ufficio, ma l’unica volta che sono andato in procura, da quando lui era rientrato in quell’ufficio, a un certo punto mi ha detto una cosa che non si può dimenticare mai, gli dissi “Paolo, lavora anche meno, siamo tutti sconvolti” e lui mi rispose con questa frase “Peppì, io non posso lavorare meno perché mi resta poco tempo”.

Prima di lasciarla dottor Ayala, qual è la differenza fra Falcone e Borsellino cos’è che insieme facevano accendere quella lampadina della legalità, della voglia, della forza e del senso dello Stato, soprattutto.

I due erano legati da un rapporto di amicizia che è difficile descrivere perché, cosa che molti non sanno, erano cresciuti insieme sin da bambini perché erano nati nello stesso quartiere, nello storico quartiere della Calza di Palermo, e erano caratterialmente differenti, Borsellino era più simile a me, la battuta pronta, era più estroverso invece Giovanni era più chiuso, io gli dicevo scherzando che il self control non l’hanno inventato, gli inglesi ma lo avevano copiato a Giovanni. Paolo era un esuberante come me, avevamo una grandissima sintonia, facevamo la gara a chi aveva la battuta più pronta, nei giorni in cui si poteva scacciare, perché molti altri giorni la voglia di scherzare non c’era. Ma l’intesa tra i due era straordinaria. Le dico solo questo, a loro bastava guardarsi. Non avevano neanche bisogno di dirle certe parole, perché si capivano soltanto lo sguardo. Era straordinario il rapporto che li legava.

Oggi, a distanza di tutti questi anni, di questi decenni, al di là che si sia fatta luce o meno, si può dire che è finita la mafia?

La mia personale opinione da prendere con le pinze, perché io non svolgo più una attività giudiziaria e neanche quella parlamentare, però diciamo che un po di questo fenomeno me ne intendo, forse condizionato dal fatto che siamo in pandemia, mi viene di fare questo esempio, nessuno pensi che sia intubata con l’ossigeno o ricoverata, però la mafia non sta bene. Però lungi a pensare che sia stata sconfitta. Secondo quello che prevedeva Giovanni. quel giorno arriverà, non so quando, io spero di essere ancora in vita perché mi piacerebbe molto esserci il giorno in cui potremo renderci conto che la mafia è stata sconfitta.

 Viviamo un momento difficile nel nostro Paese per vari motivi la guerra, la pandemia, la crisi energetica, la crisi di governo, come legge questo momento politico?

Credo che in un momento storico così complicato in cui si è sovrapposta la pandemia, la guerra tra Russia e Ucraina e tutte le conseguenze che naturalmente ricadono anche sull’Occidente, avere Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi, la mia opinione è che sembrava un colpo di fortuna straordinaria. Avevamo questi due grandi uomini. Io sono molto amico di Sergio Mattarella da una vita e so io lo spessore e il valore. Draghi ci ho parlato una sola volta in vita mia, però sappiamo tutti chi è Draghi. Pensare che in questo momento c’è il rischio di una serie crisi di governo di perdere Draghi come Presidente del Consiglio è un antidoto contro il caldo, perché mi vengono i brividi di fioretto, così non sento caldo.

Dottor Ayala la ringrazio perché lei è sempre disponibile con noi ormai da tanti anni, e vorrei sottolineare in questo giorno il suo impegno per la legalità.

In moltissime scuole in Italia viene dedicato un impegno da parte dei professori e dei dirigenti scolastici ad educare i giovani alla legalità che prima non esisteva. E questi sono dei segni che vengono collocati e probabilmente daranno piante che ci confortano su un futuro migliore. Dobbiamo sperare molto sui nostri giovani che saranno la classe dirigente di domani. Educarli sin dai banchi di scuola alla legalità è una forma di arricchimento del Paese, non mi riferisco ovviamente all’aspetto economico, ma all’aspetto della convivenza civile. Speriamo che funzioni.

Grazie al giudice Giuseppe Giuseppe Ayala, per essere stato con noi in questa mattinata, nel ricordo della strage di via D’Amelio, dove persero la vita il giudice Paolo Borsellino insieme alla scorta, per essere intervenuto in questa rubrica esclusiva di Casa Italia Radio.

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